Paesaggio desertico

di Pierre YelenLa prima volta in Burkina Faso. La prima volta in Africa. Nonostante qualche riserva iniziale, legata soprattutto ai timori delle varie insicurezze africane, Giovanni si è acclimatato. Pur essendo un universitario, ha una notevole dimestichezza con il lavoro di terreno. Dopo i primi giorni, spesi alla ricerca di qualche punto d’orientamento in un mondo così diverso, ormai è “un uomo di campo”. Contenuta attenzione alle dinamiche sociali ed economiche ma grande interesse a quelle ambientali e produttive.

Dopo tre ore di auto non è ancora stanco di fotografare: le “stazioni di servizio” con la benzina venduta nelle bottiglie vuote di Johnny Walker, i commercianti che trasportano pollame in motocicletta e una vacca, raggomitolata come un gatto, in un rimorchio grande come quello di un “ape-Piaggio”.

Una mattinata vissuta tra l’entusiasmo e lo stupore. A pranzo, prevale la cautela. I nostri colleghi suggeriscono un ristorante all’aperto “… vi faremo gustare la vera pasta!”. La ordiniamo. Servita su un vassoio, come piatto unico e collettivo, è guarnita da un pollo fatto a pezzetti. Sono facilmente riconoscibili le ali ma anche, tra gli altri, le zampe, la testa, la cresta e i bargigli! Mi guarda interrogativo, e con un pizzico di malizia, gli mostro, con un cenno del capo, i nostri due colleghi che avevano già cominciato a mangiare e, con sapiente manualità - tipicamente locale -, trasformano lo spaghetto in pallottoline amilacee, prima d’indirizzarle con precisione verso la bocca. Una tecnica sicuramente efficace per gestire una pasta che aveva superato il punto “al dente” da almeno una decina di minuti. Giovanni, con assoluta nonchalance, senza assaggiare la pasta, si concentra sui pezzetti d’arrosto… “il pollo va mangiato con le mani!”. Allineandosi allo stile della tavola.

Rientrati in auto, riprende la sua attività di “fotografo”, lasciando il telefonino appoggiato costantemente al finestrino. All’ingresso di Boutoko udiamo urla, fischi e strilli indirizzati alla nostra vettura, la sola sulla pista. Provengono dall’ombra di un grande neré, situato davanti ad una piccola casa in mattoni.

Rallentiamo.

Ad uno sguardo più attento, tra la casetta e l’albero, scorgiamo una stratificazione di vecchi copertoni vincolati al suolo, a mo’ di barriera protettiva. Gli uomini delle urla sono in divisa: militari, ovviamente armati.

Ci fermiamo.

Ci intimano di fare marcia indietro. Yacouba, l’autista, ferma la macchina davanti ad un militare che fa da contraltare al collega che si piazza dietro la vettura, imbracciando il fucile. Arriva un terzo, il più alto in grado. Parla in moré, rivolgendosi solamente all’autista. Non capisco. Interviene anche il giovane collega burkinabé ma la situazione non migliora. Cerco d’intromettermi mentre Yacouba mostra i documenti della vettura ed il foglio di missione. Il graduato mi risponde in francese dicendo che non posso comprendere ma che i burkinabé hanno capito bene la circostanza perché conoscono la realtà del Paese.

La situazione non è piacevole, è tesa; finalmente Yacouba mi dice che il problema sono le foto scattate al posto di polizia. Fanno riferimento alla casetta con i copertoni ed al cellulare di Giovanni. Lo sequestrano e chiedono di mostrargli gli ultimi scatti. Nessuna foto ai militari, e allora domandano perché sono state fotografate le bottiglie di benzina. Difficile trovare una spiegazione convincente. Giovanni è disponibile a cancellare tutte le foto.

La situazione si tranquillizza. “Gli autisti devono rispettare le nuove norme di sicurezza. Voi siete stranieri, è compito dell’autista informarvi che non si possono scattare le foto ai militari. La condizione nel Paese è difficile e pericolosa. La settimana scorsa a Boungou, i terroristi hanno ucciso 43 minatori”. Non proviamo nemmeno a ribadire l’inesistenza delle foto incriminate che non sono mai state scattate; dopo aver interceduto per il recupero della patente di Yacouba, nel frattempo sequestrata dai militari, riprendiamo il viaggio.

Giovanni è visibilmente scosso. “Sono qui per aiutare a risolvere i problemi alimentari della popolazione più povera, faccio qualche foto e mi parlano di terrorismo. Come se ci fosse una plausibile relazione tra alimentazione e attentati…” il suo retropensiero.

Boungou, piccolo villaggio dalla parte opposta del Paese, all’estremo Est. L’attentato è stato terribile: 37 morti ed una sessantina di feriti. A circa 40 km dalla miniera d’oro, il veicolo militare, di scorta al servizio trasporto dei lavoratori di una società canadese, è saltato su una mina. I cinque mezzi del convoglio, poi, sono stati attaccati. I viaggiatori/lavoratori sono stati “giustiziati”, perfino rincorsi nella savana, quelli che erano riusciti a sfuggire al primo fuoco, raccontano i sopravvissuti. Contadini che avevano abbandonato i campi per un lavoro più fruttuoso in miniera, duro ma con un reddito certo per sfamare le famiglie.

Si, Giovanni, il terrorismo ormai è diventato anche una variabile della sicurezza alimentare, nella maggior parte dei Paesi del Sahel.

 

10 maggio 2020

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