di Pierre Yelen - Dovevamo essere una quarantina, non siamo nemmeno quindici. Sono già le nove meno un quarto, quarantacinque minuti fa avremmo dovuto cominciare il meeting. A Umuduruhoa, villaggio di Isu-Njaba Local Government, la prima riunione non è andata bene. Marco, il mio collega milanese, mi ha raccontato di una difficoltà inaspettata ad interloquire con i contadini. Sembra che non abbiano condiviso la tecnica di coltivazione proposta. Dobbiamo convincere il capo-villaggio. Senza il suo assenso corriamo il rischio che non collaboreranno nemmeno alla realizzazione dell’appezzamento sperimentale.
Ci guardiamo intorno con aria interrogativa sul da farsi. Joseph, il collega nigeriano, coglie il nostro sconcerto e l’irrequietezza dei pochi presenti. Senza dir nulla a nessuno, si avvicina ad un grosso tronco, lungo un paio di metri e appoggiato su due grandi ceppi, è sollevato una cinquantina di centimetri da terra. Ha riflessi rossicci, dovrebbe essere un iroko. Una fessura nella parte superiore del tronco, lunga quasi un metro, larga 10 centimetri e profonda almeno la metà del diametro. Joseph si avvicina con due grossi bastoni, a mo’ di batocchi, e con abilità comincia a percuoterlo incessantemente, per un paio di minuti. Il suono è cupo ma è un segnale convenzionale. Gli effetti si percepiscono immediatamente.
Dalla fitta boscaglia, uno dopo l’altro, spuntano i convitati. Chi con la zappa appoggiata sulla spalla, chi con un machete nelle mani, alcune donne con piccoli cesti sulla testa. S’intravede anche una bicicletta. Con un andamento ondulante e lento si avvicina allo slargo privo di vegetazione, dove è prevista la riunione, sotto una tettoia di rami di palma intrecciati. È George, il capo-villaggio. Gli va incontro Lucien, il più anziano nel gruppetto dei puntuali. È il “capo della terra”. Lo saluta per primo, poi ci presenta formalmente. I due sono i soli che siederanno sulle sedie, le altre due sono per me e Marco. Joseph è su un banchetto di legno, mezzo metro dietro la linea delle quattro sedie, tra noi ed i due “capi” che guardano la platea. Tutti gli altri sono seduti su grossi rami d’albero disposti in una sorta di semicerchio, a terra.
Un contadino è in piedi, all’estrema sinistra dell’assemblea. Ha uno strano copricapo nero, se fosse rosso lo direi uscito da un quadro di Delacroix, dietro a Marianne, col suo berretto frigio. Non è un giacobino, tutt’altro. Sorregge un piatto di plastica che contiene una noce di cola spezzettata in quattro parti, dei semi di peperoncino e quattro noci intere. Nel rispetto della tradizione, prima dell’avvio di ogni riunione va “salutata la cola” che favorirà la ricerca delle decisioni migliori. Lucien prende il piatto con tutte e due le mani, inizia a parlare in igbo e spiega l’obiettivo del meeting e la presenza dei “bianchi”. Finito l’intervento, riconsegna il piatto nelle mani del contadino col berretto rosso che con un mezzo inchino lo porge a Marco. Con efficienza lombarda, senza indulgere nella retorica - in realtà tra l’estraniato e l’imbarazzato -, liquida la pratica dei convenevoli in 30 secondi, rimettendo la cola al suo portatore. La traduzione in igbo di Joseph non sortisce nessuna reazione particolare, lo stesso capo-villaggio con un cenno della testa, senza particolare entusiasmo, chiede che mi sia recapitata la cola.
È il mio turno. “ Ndeewo…”. Automaticamente mi rispondono tutti, “Ndeewo o’ …”, inclusi i due “capi”, George e Lucien. Ora tutti mi fissano. “… How far? I no cola no speak english … ”, mi fermo chiedendo a Joseph di tradurre il mio incipit in pidgin-english. La curiosità diventa interesse. “ … vi chiedo scusa, non parlo Igbo, chiedo a Joseph di spiegarlo alla cola…”. Termino in inglese il mio breve discorso di presentazione e di cerimonia. Mangio un pezzetto di cola, accompagnata da un semino di peperoncino, mimo il fuoco nella bocca. Tutti ridono, anche George che mi invita a prendere una noce e metterla in tasca. “La mangerai stasera…”. Ora la risata è fragorosa: tutti conoscono le qualità afrodisiache della cola. George, come capo-villaggio, prende il piatto nelle sue mani, ancora col sorriso sulla bocca, e poi, riassumendo un’espressione seriosa, annuncia all’assemblea, che la cola è pronta ed è ben disposta ad ascoltare la nostra riunione.
30 maggio 2020