di Pierre Yelen - Stimo rientrando da Menaka, destinazione Dori, dove pernotteremo. Siamo nella zona dei tre confini. Siamo passati dal Mali al Niger, per entrare in Burkina Faso.
C’è ancora l’harmattan ma le temperature sono già alte. All’interno dell’auto il climatizzatore rende sopportabile questo mix di caldo e sabbia. Il paesaggio è brullo, anche le foglie delle acacie sono ricoperte di sabbia ed acquistano una tonalità giallo ocra che insieme al marrone delle parti legnose fanno da contraltare al rosso della pista sulla quale viaggiamo.
Finalmente, vediamo la frontiera. Un tronco d’albero secco in mezzo alla pista, appoggiato orizzontalmente su un bidone, da una parte, e su una specie di cavalletto di ferro, dall’altra. Ci fermiamo, Francois spegne il motore. A 20 metri, a destra, sotto un Gao, due doganieri ci osservano, sono però concentrati sulla moto parcheggiata al loro fianco. Senza alzarsi dalle loro sedie, intrecciate con fili di plastica, ci indicano come punto d’approdo la piccola costruzione poco più avanti della sbarra di legno.
È l’ufficio della dogana/frontiera. Piccolo, due metri per tre, tetto di lamiera ed un bancone pressoché vuoto, risparmiato dalla polvere solamente nella sua parte centrale. Fa un caldo opprimente che sembra non dar fastidio alle mosche che svolazzano numerose; un ventilatore è localizzato in un angolo ma non funziona. Il doganiere è di poche parole, quasi infastidito della nostra presenza. Timbra i nostri passaporti limitandosi alle domande di rito di tutte le frontiere del mondo. Facciamo presto.
Con Francois salutiamo ed usciamo dall’ufficio. Scorgiamo Rose e Richard, in piedi fuori dalla vettura; stanno ascoltando una donna arrivata chissà da dove. Non è una venditrice, non ha nessuna mercanzia; veste con un pagne tradizionale, i colori attenuati dal lungo utilizzo, con un bambino appoggiato sul fianco destro che indica a più riprese, mentre continua a parlare con un tono tra l’esortazione e la supplica.
“Francois, non comprendiamo nulla, riusciamo a capire solamente un suono che si avvicina alla parola “France”, … cosa ci sta dicendo?”. La mia collega Rose chiede aiuto all’autista che un po’ se la cava col fulfulde. Riesce a cogliere il senso, pur con qualche difficoltà: “… le sta chiedendo di portare suo figlio, Mamadou, in Francia. Ha due anni ed è in buona salute! È il sesto. Non ha la possibilità di nutrirlo. I raccolti non sono più quelli di una volta. L’ultimo nato è in competizione con gli altri 5 per il cibo e poi … se viene con voi avrà una vita sicuramente migliore. Non vuole nulla … sola una vita migliore per suo figlio”. Ci guardiamo ammutoliti chiedendo a Francois di confermare la traduzione. Ammutoliti scambiamo sguardi furtivi, quasi inebetiti da quelle parole. Richard prende un biglietto di 10.000 franchi e lo regala alla signora che lo accetta e lo ringrazia ma continua a rinnovare la richiesta per suo figlio.
Risaliamo in macchina. Nessuno parla. Dopo qualche chilometro, Francois rompe la pesante calma apparente che regna nell’abitacolo: “sono i peul, sono fatti così!”. Così sia.
I 100km fino a Dori li percorriamo in religioso silenzio.
22 settembre 2020