di Francesco Lorenzini, Tamat NGO - La Tunisia, a differenza della maggioranza dei paesi europei, ha agito sin da subito con reattività nell’affrontare la “questione Corona-Virus”. Un atteggiamento lungimirante, legato anche alla consapevolezza del governo tunisino sulle limitate risorse a disposizione a livello sanitario (si parla di circa 350 unità di rianimazione, che potrebbero diventare mille con il supporto del settore sanitario privato). Infrastrutture e attrezzature potrebbero quindi non essere sufficienti a gestire una situazione di assoluta emergenza, simile a quelle vissute a Bergamo o Madrid.
Per tale ragione già il 20 marzo 2020, con “soli” 54 casi e 1 morto da COVID-19, il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed ha dichiarato l’adozione di misure particolarmente stringenti, tra cui l’obbligo per tutto il paese di restare in casa se non per motivi di assoluta urgenza e necessità, e la chiusura di tutte le attività che non forniscano servizi essenzali.
A riprova della bontà delle misure varate dal governo, nelle ultime settimane il virus in Tunisia non ha sfondato: i numeri restano relativamente bassi (495 contagiati e 18 vittime) anche in confronto ad altri paesi della regione, quali Algeria e Marocco. Dati che danno forza al Primo Ministro Elyes Fakhfakh che proprio oggi, sabato 4 aprile, ha dichiarato in Parlamento come “il picco sarà raggiunto la prossima settimana, e che per questo motivo non bisogna assolutamente abbassare la guardia”.
Restano tuttavia alcuni dubbi. In primo luogo, non si può non notare come il numero limitato di tamponi effettuati (5.736 per una popolazione di più di 10 milioni di abitanti) renda difficile avere un’idea sull’effettiva estensione del contagio, gettando inevitabilmente delle ombre sui mezzi a disposizione delle strutture sanitarie locali nel monitorare la diffusione del virus.
Ma è sicuramente la questione sociale il vero punto interrogativo sulla tenuta del paese. In Tunisia l’economia informale è difatti particolarmente estesa: buona parte della popolazione vive alla giornata e non dispone di alcuna forma di copertura sociale. Ne consegue che in tanti, soprattutto nelle regioni più povere dell’interno, inizino ad essere insofferenti dopo due settimane di quarantena senza la possibilità di guadagnarsi da viviere.
La tensione sociale aumenta con il passare dei giorni e le prime proteste sono già scoppiate a Kasserine (cittadina al confine con l’Algeria, tra le più povere del paese) e nella perifieria di Tunisi. Tutto dipenderà quindi dalla capacità del governo centrale nel varare misure adeguate a sostegno delle fasce più deboli della popolazione. Da questo punto di vista sono stati varati alcuni provvedimenti, come la distribuzione di derrate alimentari e la concessione di un contributo a fondo perduto di 200 dinari (70 euro circa) per le famiglie in difficoltà.
In questo quadro di riferimento, la società civile tunisina si è data da fare per cercare di colmare le lacune di un sistema inevitabilmente a corto di risorse. In tutto il paese sono tante le iniziative partite dal basso per aiutare chi si trova ai margini, a conferma dello spirito di solidarietà che caratterizza il popolo tunisino. Così per esempio in diverse città i laboratori artigianali cuciono mascherine da donare agli operatori sanitari, mentre gruppi di tecnici specializzati riparano gratuitamente i macchinari in panne negli ospedali.
Tutto ciò però rischia di non bastare. Se il Corona-Virus dovesse dilagare nel Maghreb, la situazione potrebbe degenerare in una regione caratterizzata da sistemi politici fragili e tessuti sociali già sotto forte pressione. Uno scenario che determinerebbe, di fatto, il completamento del processo di destabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo, iniziato con le primavere arabe del 2011. Ed è proprio la Tunisia, unico Stato nordafricano che ha saputo costruire una forma di governo democratica nel periodo post-rivoluzionario, il paese che ha più da perdere in uno scenario di questo genere.
Per questo la Tunisia non può essere lasciata sola in un momento cruciale come questo. Un monito anche per chi, in Italia, pensa sia il momento di focalizzarci solo sui nostri problemi senza tenere conto di quello che succede intorno a noi.